Le tecniche di ibridazione
in situ
permettono di identificare e quantificare
in modo specifico e rapido i microorganismi nell’ambiente senza dover ricorrere
a tecniche di coltivazione. Più del 90% dei microrganismi presenti
in natura non sono infatti coltivabili.
Istituto di Ricerca Sulle Acque, Consiglio Nazionale delle Ricerche (IRSA-CNR)
Ilaria Pizzetti, Stefano Fazi
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n. 20 novembre 2015
AMBIENTALE
MONITORAGGIO
Tecniche di ibridazione
nel monitoraggio
ambientale di batteri
Il caso delle clamidie
Attraverso l’impiego di sonde
oligonucleotidiche specifiche per
il rRNA, le tecniche di ibridazione
in situ permettono di identificare
e quantificare non solo batteri a
vita libera presenti nell’ambiente
acquatico ma anche quelli associati
ad ospiti intermedi, come nel caso
dei batteri simbionti di protisti (es.
amebe). I protisti, ospiti naturali di
una varietà di batteri, favoriscono
la moltiplicazione e disseminazione
di patogeni appartenenti a diverse
famiglie tra cui le Legionellaceae,
le Mycobacteriaceae, le
Enterobacteriaceae e le
Vibrionaceae. Oltre ai patogeni
più conosciuti, anche i cosiddetti
batteri patogeni emergenti, ai
quali appartengono anche le
Chlamydiae, utilizzano i protisti
come reservoir che ne favoriscono
la proliferazione e successiva
disseminazione nell’ambiente.
Il phylum delle Chlamydiae è stato
scoperto circa un secolo fa ed
inizialmente era rappresentato dalla
sola famiglia delle Chlamydiaceae
che comprende agenti eziologici
di gravi malattie per gli esseri
umani (es. tracoma, malattie
sessualmente trasmissibili e
polmonite, [1]) e gli animali [2].
La diversità delle Chlamydiae
è però drasticamente cambiata
negli anni ′90, con la scoperta dei
primi “Chlamydia-like bacteria”,
oggi anche denominate “clamidie
ambientali” [1] inizialmente
simbionti di amebe a vita libera ed
insetti e ad oggi anche patogeni
di amebe, crostacei, pesci, bovini
ed altri vertebrati. Questi batteri
sono filogeneticamente correlati